Sul Lagorai al solstizio d’inverno

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21 dicembre 2015 solstizio d’inverno, il giorno piu corto dell’anno.



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Erano tre anni che pensavo di chiudere questo loop, le avevo provate tutte le altre opzioni, là in giro, d’estate, in primavera, in autunno ma ovviamente mai in inverno e mai mi sarei aspettato di poterlo fare a pochi giorni da Natale dato che solitamente questa zona è sommersa dalla neve.

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La strada è ufficialmente chiusa, in una condizione normale la pericolosità legata alle valange è elevatissima, ma adesso, la stanga è abbassata, il divieto è ben in evidenza ma non c’è traccia d’inverno. Però allo stesso tempo, non c’è nemmeno traccia di auto e di altre persone e questo rende la cosa ancora più interessante per non dire esclusiva!

Nicola, fa parte di quest’avventura, viene da Parma, ci siamo conosciuti l’anno scorso durante un corso MM1 della Federazione, la sfortuna ha voluto che abbandonasse prematuramente a causa di un infortunio ma siamo rimasti in contatto.

Non è un giro per tutti, sia ben chiaro, le difficoltà tecniche sono elevate, ma la sensazione è che lui fosse la persona giusta da invitare e così è stato.

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Il Passo del Manghen è un classicone per gli stradisti, reso ancora più famoso perchè inserito in passato in qualche edizione del Giro d’Italia, permette di passare dalla Valsugana attraverso la Val Calamento e successivamente una volta svalicato, attraverso la Val Cadino alla val di Fiemme, ma è una volta lasciata la striscia di asfalto che si comincia a capire cos’è il Lagorai.

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Questa zona come tante altre della nostra regione è stata teatro della prima Guerra Mondiale, che, oltre alle coscienze, ha segnato inesorabilmente anche il paesaggio, ma ha dato anche la possibilità di essere esplorata a piedi e in mtb grazie alla moltitudine di mulattiere e sentieri costruiti per scopi bellici.

Le testimonianze di questo sanguinoso conlfitto sono tantissime, per lo più diroccate e incomprensibili, alcune di queste sono state riassestate all’avvicinarsi del centenario e la Herta Miller Haus ne è un esempio.

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Dopo circa un ora di salita nel silenzio, interrotto qui e là dalle nostre chiacchiere e da timidi corsi d’acqua che a stento sopravvivono a questa anormale siccità arriviamo al passo. Anche lì, nessuna traccia umana, il ristornate chiuso, il laghetto ghiacciato e il cartello col nome del passo sempre più affogato negli adesivi, ma il panorama comincia a diventare fantastico.

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Lasciato il passo la direzione è quella della forcella del Frate, sotto la cima Ziolera, il primo tratto è (diciamo) pedalabile, ma poi si comincia a spallare. Qualche superstite lingua di neve completamente ghiacciata ci mette alla prova sulla parte in ombra del sentiero, c’è da stare sul bordo esterno, ma così è più interessante no? Una volta passata la forcella sappiamo che quel versante e tutto il catino che si aprirà hanno una migliore esposizione a sud e quindi sarà difficile trovare altri rimasugli di neve, così la prendiamo allegramente.

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Quello che si presenta una volta girato l’angolo è fantastico, le distese pratose sono di un intensissimo giallo dorato ed è abbastanza difficile arginare i sorrisi nonostante la fatica, ma occhio, non perdiamo la concentrazione, i ciuffi d’erba sono sì belli ma allo stesso tempo pericolosissimi; la loro robustezza e la secchezza li rendono scivolosissimi e non è difficile rischiare di farsi uno scivolone anche per parecchi metri lì sotto.

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Buttando uno sguardo verso N-E vediamo in primo piano tra le nuvole la nostra destinazione cima Valpiana, ma se guardiamo più lontano scorgiamo la Cima d’Asta nel suo splendore e più in là nella distanza la zona delle Pale di S. Martino.

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Poco dopo la forcella, in un punto riparato dal vento, ci fermiamo per fare merenda; sapevo che sarebbe stato tutto chiuso così la mattina in un momento di lucidità avevo preparato una thermos di tè, da mangiare c’era pane e kaminwurzen molto “Kaiserjäger-style” e dato l’itinerario dal sapore austroungarico ci stava. Per non farci mancare nulla ci siamo accomodati all’interno di un riparo ricavato in una cavità nella roccia, probabilmente fungeva da punto intermedio come deposito o proprio come riparo in caso di maltempo, qualcuno ci aveva anche pernottato utlimamente. I pastori lo utilizzano durante l’estate durante gli alpeggi.

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Non potevamo svaccarci troppo anche se non sarebbe stato male fermarsi un po’ di più, ma eravamo a metà giro ed erano già passate le 12, considerando che la giornata era corta e che la discesa finale era in sottobosco fitto all’interno di una valle angusta, le ore di luce non erano ancora tante, così, ci siamo rimessi in cammino, beh dai, anche a pedalare dove si poteva. Con buona tecnica direi che questo giro si può cosiderare pedalabile al 65-70%, chiaro, non è una cosa facile e per molti è davvero snervante un tipo di riding così, non si può prendere un ritmo costante, il movimento è spezzato e irregolare e la bici va caricata e spinta abbastanza spesso, ma sinceramente è giusto che qui venga chi lo può fare ma soprattutto chi lo può apprezzare. Sempre più spesso ormai la tendenza è quella di permettere tutto a tutti, indistintamente e senza meriti, la montagna è fatica e le discese andrebbero guadagnate (il più possibile) sudando e perchè no, imprecando.

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Proprio a metà tra la forcella Ziolera e la forcella della Pala del Becco c’è un altra forcelletta senza nome che porta al lungo traverso verso la Herta Miller Haus, la roccia diventa stranamente più scura in quel punto, se stessimo leggendo un racconto fantastico si potrebbe immaginare che l’incupimento dei colori sia causa di un malvagio stregone che vive nel castello arroccato tra le nubi, sarebbe bello fosse così, ma la realtà del passato può far pensare che il colore sia così scuro per via dell’inutile sangue versato solo cento anni fa da ragazzi che non hanno nemmeno potuto sognare di arrivarci alla nostra età.

Vabbè, camminare in montagna nel silenzio e tra questi panorami serve anche a questo, pensare a chi non c’è più o semplicemente non pensare, non chattare, non ipercomunicare, provare a connettersi senza fili ad un mondo che ci stiamo dimenticando, inesorabilmente.

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Comunque, tra una riflessione e l’altra arriviamo all’ultimo tratto del cengione realizzato artificialmente tra i parallelepipedi di roccia scura, qua e la si notano ancora gli ancoraggi dei cavi del telegrafo, adesso è caldo e anormale, ma pensate alle condizioni in cui vivevano i soldati e soprattutto i feriti che venivano portati a dorso di mulo qui durante l’inverno, e l’inverno qua (quando è normale) è davvero tosto!

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Siamo arrivati, eccola lì, la Herta Miller Haus, ristrutturata lo scorso anno e quindi salvaguardata almeno in parte dalla distruzione causata dagli eventi atmosferici. La ristrutturazione lascia un po’ di dubbi dato che una parte del tetto è collassata e la lamiera di copertura è sollevata fino a metà tetto. All’interno si trovano ancora alcuni resti del focolare e altre parti metalliche, oltre ad una parte superstite del pavimento in legno che per il 90% è marcito, volgendo uno sguardo verso l’esterno si scorge un panorama eccezionale, magra consolazione almeno adesso, dubito che quei poveracci avessero modo di apprezzarlo allora. Ma i pensieri divagano, ancora.

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Tempus fugit!

Questa parte di itinerario che ci riporta verso valle è nuova per Nicola come lo è per me, a differenza delle altre opzioni che circondano questa zona e che ho già percorso varie volte, tutto ciò che so’ viene dallo studio attraverso le carte geografiche ed osservazioni su Google Earth, quindi non sapendo esattamente come sarà la prima parte della discesa decidiamo di muoverci, il sole si sta abbassando velocemente e sono le 14.

Fino adesso è andato tutto molto bene, non voglio dire meglio del previsto, ma sorprendentemente “smooth”.

Avevamo notato una chiara traccia, in avvicinamento, che portava direttamente verso la diroccata malga Baessa li nel pianoro sottostante, quello lo avevo lasciato come eventuale percorso di svincolo nel caso la discesa verso malga Cere fosse stata troppo ostica, ma il piano era di percorrere la parte alta del 398 e non volevamo deluderci.
Devo ammettere che la prima parte della discesa (ah, ovviamente visto l’entusiasmo quasi fanciullesco abbiamo preso inizialmente un rotta sbagliata scendendo verso la cima del Bortolo, così ci siamo rifatti 100mt di bike a spalla per tornare alla cima Valpiana) è bella tosta, esposta, ripida e con un fondo abbastanza sdrucciolevole, se sulla mappa si presta attenzione a come la traccia interseca le curve di livello nei primi 180mt di dislivello non è difficile capirlo, ma eravamo li per stare il più possibile in bike e così l’abbiamo chiusa alla grande, sorpresi e soddisfatti di aver fatto passaggi moooolto tecnici!

In queste condizioni il pensiero di fermarsi a fare fotografie diventa estremamente remoto, si dovrebbe sempre invitare un amico fotografo che non va in bici per essere sicuri, ma poi la maggior parte delle volte le immagini rimangono intrappolate nel hd del computer sottoforma di files e nessuno se li caga più, meglio immagazzinare il più possibile i ricordi nella nostra testa e portarseli ovunque no?

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Arrivati alla forcella Maddalena e finito il tratto “vert” abbiamo urlato per la gioia, uno sfogo liberatorio, in montagna si fa, non ci si vergogna e fa bene, in città fallo e poi vedi cosa ne pensano di te… Da lì in poi, un idillio, una successione di passaggi, curve, tratti flow velocissimi che attraversavano i pascoli in quota da far perdere la testa, ma chi si ferma a far foto adesso?!?! E allora giù a manetta, fino a malga Cere.

La staccionata che divide il pascolo dalla malga ci fa rallentare e li ci rendiamo conto che in pochi minuti abbiamo perso molto dislivello, 430mt (sbang!), ci giriamo verso la cima e in silenzio la guardiamo mescolando velocemente tanti pensieri, nessuna parola.
I cartelli segnavia sono li, la malga è chiusa, riaprirà il 27, noi non saremo qui e forse l’incontrare altra gente avrebbe interrotto questo equilibrio che si era creato nella solitudine di quelle ore.

Continuiamo, percorriamo i 300mt di strada forestale che portano alla parte bassa del sentiero, lo imbocchiamo, wow, un regalo fantastico, un susseguirsi di tornanti, compressioni, radici, salti naturali, tornanti, tratti rettilinei, radici.

I 540mt di dislivello rimasti si esauriscono come una ciotola di caramelle lasciata in mezzo ad un gruppo di bambini ed arriviamo nuovamente alla striscia di asfalto che divide i due versanti della Val Calamento, silenzio, la sotto solo il torrente, che scorre, non c’è gente, solo noi, case barricate e semi abbandonate, non solo per via della stagione, ma per una valle che poco a poco sta morendo, perchè se ci passi è solo per passare, non per fermarti ed ammirare.
Carichiamo le bici, il sorriso ebete è lì stampato, Nicola comincia a sentire l’amarezza del rientro in Pianura, l’A22, la nebbia. A Borgo ci fermiamo per prendere un caffè, bar del distributore, la radio che gracchia, barista caraibica sovrappeso, alcuni clienti di età diverse bevono guardando a terra, occhi spenti, un’insalatiera zeppa di noccioline americane da sgranocchiare mentre il tempo sgranocchia loro, con una giornata così penso…….e la fantasia ritorna a viaggiare.

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