Ero seduto nella sala d'aspetto dell'ospedale: uno stanzone molto grande con la nebbia che filtrava dai serramenti marci e scassati delle enormi finestre. Stretto nel mio pigiama di feltro color cammello di due taglie più piccole per ripararmi dal freddo e l'umidità.
Seduto su una panchina di ferro verde, vicino ad un marinaio di Genova con un tic, vero o simulato, che gli faceva girare la testa di scatto ogni 2 parole dette, il che faceva sembrare surreale la sua conversazione con un guastatore di Legnano che bestemmiava in continuazione per il dolore alla gamba fasciata in un tutore.
Erano ore che aspettavamo che aprisse lo sportello da cui qualcuno avrebbe dovuto darci o il foglio per tornare al reparto o il foglio per essere rinviati nel girone infernale di visite in scantinati sporchi da medici stronzi.
La panchina davanti a me era vuota e da ore fissavo ipnotizzato uno scarafaggio lungo mezzo mignolo, di colore marrone, che faceva a buona velocità il giro della panchina lungo il suo bordo esterno: lungo tutta la seduta, per risalire lungo lo schienale fino all'altro lato, per poi ridiscendere e rifare il giro.
Fu in quell'occasione che per la prima volta riflettei sul significato di pazienza.
Normalmente nel mondo del ciclismo, agonistico in particolare, ma anche quello degli amatori, le virtù di questo sport sono descritte con uno spreco di retorica incentrata sulla sofferenza, il sacrificio, l'eroismo, la sopportazione della fatica e degli elementi naturali.
Una tappa di montagna col freddo, la pioggia o la neve diventano imprese immortali, tanto da far entrare una montagna come il Galibier in un celebre saggio del semiologo Roland Barthes.
Montagne come metafore geografiche di luoghi simbolo: il deserto ed il calore del Mont Ventoux, i ghiacci ed il freddo del Galibier.
Nella Mountainbike ogni anno si ripete la celebrazione degli Eroi della Transalp. Con tanto di foto prima e dopo la settimana di fame, freddo, fatica che li consacra ene stravolge i connotati.
Il fango nobilita ogni biker più dell'oro. Nell'iconografia di ogni campione delle ruote grasse non puo' mancare la foto col volto sfatto o i denti digrignanti aggressività che spuntano sotto uno spesso strato di fango.
Nel ciclismo su strada il fango è persino una condizione essenziale per una gara come la Parigi-Roubaix. Le cui edizioni senza palta non sono quasi prese sul serio.
O nel ciclocross dove l'affondare e sguazzare nel fango ha qualcosa di primitivo e masochistico. O forse erotico, come le lotte nel fango che a volte si vedono in tv, con pettorute donnine in bikini attorniate da manzi americani urlanti con bottiglie di birra in mano...
Una virtù delle due ruote che invece è spesso trascurata secondo me è la pazienza.
I ciclisti più scafati ed ingazzuriti più che non i kilometri, che più che altro servono come biglietto da visita e vengono usati come unità di misura nell'impossibilità dell'alternativa dell'esibizione del proprio membro, quando devono quantificare la quantità del proprio allenamento o delle proprie uscite usano il tempo. Ore, minuti, secondi.
Distanza e tempo sono correlati, ma non sempre.
Una lunga salita puo' essere affrontata a razzo e portata a termine con onore e ammirazione dal classico tizio che "va come una moto", ma anche l'ultimo dei paracarri si conquista rispetto se quella stessa salita la fa nel triplo del tempo. E più tempo ci mette e quasi meglio è. La caparbietà viene premiata. Non è più la performance fisica che conta, ma la capacità di sopportazione, la pazienza. Metterci pochissimo o tantissimo al limite si equivalgono.
A chi pedala è capitato per forza di dover trascinare la propria pellaccia per ore ed ore lungo salite infinite, rese ancora più lunghe dal rapportino che ci fa avanzare come lumachine, ma che è scelta obbligata per la potenza delle nostre gambe.
O dalle lunghe soste per calmare il mal di culo con la scusa di ammirare il paesaggio (quando c'è).
Già, perchè c'è un dolore ciclistico di cui spesso si parla poco. 2000 o 3000 metri di dislivello non si sentono solo nelle gambe come si usa dire, ma anche nel culo. E la colpa non è solo della sella. Certo, si ripete all'infinito che ogni culo vuole la sua sella, ma dopo tante ore anche una poltrona vera fa venir voglia di alzarsi e camminare come Lazzaro.
Nel lungo tempo, nella durata, oltre a queste dolore cosi' "basso" se ne aggiunge un altro non meno infido: il dolore mentale.
La pazienza serve soprattutto a contrastare questo. La noia, l'essere stufi, il dire basta.
Il basta che classicamente ci fa "girare la bici".
Tante ore in sella, soprattutto se si è da soli, necessitano di motivazione e nervi saldi. Perchè già la solitudine è una cosa non facile con cui convivere, ma se vi si aggiunge il disagio diventa una sfida: stanchezza, noia, le motivazioni che vengono a mancare, i dubbi su quello che si sta facendo, su dove si sta andando. La testa comincia a fare male. O a svuotarsi.
Quante volte una lunga salita diventa "interminabile"? E non perchè il fisico se ne lamenti, ma perchè si è stufi? Quanti pensieri ci attraversano la testa nelle lunghe uscite?
Il ciclismo è una questione di testa si sente spesso dire. Ed è vero. Non è sempre facile pensare per ore ed ore seduti su un trespolo a pedali.
Una volta ho sentito dire che la bicicletta è un mezzo che serve a pensare. Perchè è come stare seduti su una sedia fermi per 5 ore o più: non ti resta che pensare. Lo ha detto Lance Armstrong riguardo alla difficoltà dei propri allenamenti.
Dopo 6 ore alla fine mi dettero il mio foglio e potei andarmene. Felice di tornare a sgobbare in caserma piuttosto che star seduto su una panchina al freddo ad aspettare.
Ogni tanto pero' penso a quello scarafaggio che faceva su e giù per la panchina all'infinito. E penso alla pazienza.
E che sarebbe stato un ottimo ciclista.
Seduto su una panchina di ferro verde, vicino ad un marinaio di Genova con un tic, vero o simulato, che gli faceva girare la testa di scatto ogni 2 parole dette, il che faceva sembrare surreale la sua conversazione con un guastatore di Legnano che bestemmiava in continuazione per il dolore alla gamba fasciata in un tutore.
Erano ore che aspettavamo che aprisse lo sportello da cui qualcuno avrebbe dovuto darci o il foglio per tornare al reparto o il foglio per essere rinviati nel girone infernale di visite in scantinati sporchi da medici stronzi.
La panchina davanti a me era vuota e da ore fissavo ipnotizzato uno scarafaggio lungo mezzo mignolo, di colore marrone, che faceva a buona velocità il giro della panchina lungo il suo bordo esterno: lungo tutta la seduta, per risalire lungo lo schienale fino all'altro lato, per poi ridiscendere e rifare il giro.
Fu in quell'occasione che per la prima volta riflettei sul significato di pazienza.
Normalmente nel mondo del ciclismo, agonistico in particolare, ma anche quello degli amatori, le virtù di questo sport sono descritte con uno spreco di retorica incentrata sulla sofferenza, il sacrificio, l'eroismo, la sopportazione della fatica e degli elementi naturali.
Una tappa di montagna col freddo, la pioggia o la neve diventano imprese immortali, tanto da far entrare una montagna come il Galibier in un celebre saggio del semiologo Roland Barthes.
Montagne come metafore geografiche di luoghi simbolo: il deserto ed il calore del Mont Ventoux, i ghiacci ed il freddo del Galibier.
Nella Mountainbike ogni anno si ripete la celebrazione degli Eroi della Transalp. Con tanto di foto prima e dopo la settimana di fame, freddo, fatica che li consacra ene stravolge i connotati.
Il fango nobilita ogni biker più dell'oro. Nell'iconografia di ogni campione delle ruote grasse non puo' mancare la foto col volto sfatto o i denti digrignanti aggressività che spuntano sotto uno spesso strato di fango.
Nel ciclismo su strada il fango è persino una condizione essenziale per una gara come la Parigi-Roubaix. Le cui edizioni senza palta non sono quasi prese sul serio.
O nel ciclocross dove l'affondare e sguazzare nel fango ha qualcosa di primitivo e masochistico. O forse erotico, come le lotte nel fango che a volte si vedono in tv, con pettorute donnine in bikini attorniate da manzi americani urlanti con bottiglie di birra in mano...
Una virtù delle due ruote che invece è spesso trascurata secondo me è la pazienza.
I ciclisti più scafati ed ingazzuriti più che non i kilometri, che più che altro servono come biglietto da visita e vengono usati come unità di misura nell'impossibilità dell'alternativa dell'esibizione del proprio membro, quando devono quantificare la quantità del proprio allenamento o delle proprie uscite usano il tempo. Ore, minuti, secondi.
Distanza e tempo sono correlati, ma non sempre.
Una lunga salita puo' essere affrontata a razzo e portata a termine con onore e ammirazione dal classico tizio che "va come una moto", ma anche l'ultimo dei paracarri si conquista rispetto se quella stessa salita la fa nel triplo del tempo. E più tempo ci mette e quasi meglio è. La caparbietà viene premiata. Non è più la performance fisica che conta, ma la capacità di sopportazione, la pazienza. Metterci pochissimo o tantissimo al limite si equivalgono.
A chi pedala è capitato per forza di dover trascinare la propria pellaccia per ore ed ore lungo salite infinite, rese ancora più lunghe dal rapportino che ci fa avanzare come lumachine, ma che è scelta obbligata per la potenza delle nostre gambe.
O dalle lunghe soste per calmare il mal di culo con la scusa di ammirare il paesaggio (quando c'è).
Già, perchè c'è un dolore ciclistico di cui spesso si parla poco. 2000 o 3000 metri di dislivello non si sentono solo nelle gambe come si usa dire, ma anche nel culo. E la colpa non è solo della sella. Certo, si ripete all'infinito che ogni culo vuole la sua sella, ma dopo tante ore anche una poltrona vera fa venir voglia di alzarsi e camminare come Lazzaro.
Nel lungo tempo, nella durata, oltre a queste dolore cosi' "basso" se ne aggiunge un altro non meno infido: il dolore mentale.
La pazienza serve soprattutto a contrastare questo. La noia, l'essere stufi, il dire basta.
Il basta che classicamente ci fa "girare la bici".
Tante ore in sella, soprattutto se si è da soli, necessitano di motivazione e nervi saldi. Perchè già la solitudine è una cosa non facile con cui convivere, ma se vi si aggiunge il disagio diventa una sfida: stanchezza, noia, le motivazioni che vengono a mancare, i dubbi su quello che si sta facendo, su dove si sta andando. La testa comincia a fare male. O a svuotarsi.
Quante volte una lunga salita diventa "interminabile"? E non perchè il fisico se ne lamenti, ma perchè si è stufi? Quanti pensieri ci attraversano la testa nelle lunghe uscite?
Il ciclismo è una questione di testa si sente spesso dire. Ed è vero. Non è sempre facile pensare per ore ed ore seduti su un trespolo a pedali.
Una volta ho sentito dire che la bicicletta è un mezzo che serve a pensare. Perchè è come stare seduti su una sedia fermi per 5 ore o più: non ti resta che pensare. Lo ha detto Lance Armstrong riguardo alla difficoltà dei propri allenamenti.
Dopo 6 ore alla fine mi dettero il mio foglio e potei andarmene. Felice di tornare a sgobbare in caserma piuttosto che star seduto su una panchina al freddo ad aspettare.
Ogni tanto pero' penso a quello scarafaggio che faceva su e giù per la panchina all'infinito. E penso alla pazienza.
E che sarebbe stato un ottimo ciclista.