Islanda: fra fantasmi e natura [parte 2]

[Continua da qui] Arnes, ultimo abitato prima del deserto sub-artico nel quale mi sto per inoltrare in solitaria. Per i prossimi 300 km fino ad Akureyri ci sono solo tre avamposti di civiltà.
La giornata parte discretamente con un forte vento che mi soffia in faccia, vento che mi fa sbandare sulla strada, per fortuna che qui le strade sono larghe e prive di traffico. Passerà un veicolo sì e no ogni quarto d’ora.

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Pedalare in queste condizioni è particolarmente stressante sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico. Il costante frusciare del vento nelle orecchie è qualcosa di insopportabile per non parlare della difficoltà che si ha nel manovrare la bicicletta. Il terreno intorno è quasi desertico: non ci sono nè edifici nè alberi. Nel primo pomeriggio mi prende un momento di sconforto e mi giro più volte indietro chiedendomi se non sia meglio girare le ruote. Mi siedo dietro un grosso masso per ripararmi dal vento e mangio qualcosa e decido il da farsi. Tolto il sibilo incessabile del vento nelle orecchie la mente ritorna lucida, si va avanti. Lungo quegli interminabili pezzi di strada assolutamente dritta bisogna trovare il modo per ingannare il tempo e si comincia a pensare… qualsiasi cosa va bene, basta tenere impegnata la mente.
Passo l’ultimo rifugio civilizzato per guadagnare più strada possibile, domani prevedo una giornata mooolto difficile.
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Nel vedere questo mi sono immaginato la famiglia in viaggio:
“Papà, papà, devo fare pipì!” , “Va bene figliolo, ci fermiamo al prossimo distributore.”[/I]
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Pianto la tenda all’imbrunire appena imboccato lo sterrato che attraversa il deserto.
La prima notte in mezzo al NULLA…

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Durante la notte mi sveglio spesso per il forte vento che spazza la mia tenda, ogni volta spero di essere stato abbastanza bravo a piantarla. È la prima volta che non dormo tranquillo nella mia tendina.
Mi sveglio la mattina di buon’ora ma fatico ad alzarmi, l’aria è fredda e si sta cosi bene al calduccio del sacco a pelo.
Nel piegare la tenda la polvere lavica si infila ovunque, così oltre che umida adesso è anche piena di sabbiolina fine fine ovunque.
Soffia un forte vento da nord che frena costantemente la mia avanzata. È talmente forte che in pianura procedo a non piu di 6-7 km/h e anche nelle discese devo pedalare se non voglio fermarmi.
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Il vento è difficile da rendere in foto, ma qui un po’ si percepisce[/I]
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Lotto per ore contro la furia di questo elemento naturale che mi sbalza a destra e a sinistra sulla strada. Ad un certo punto vedo due sagome in lontananza sulla strada, prima di poterle distinguere bene cerco di capire se sono 2 cicloturisti che hanno il vento a favore, no troppo lenti. Avvicinatisi ancora un po’ vedo chiaramente che sono due persone a piedi. Meno male che c’è gente più matta di me. Dato il forte vento ci si saluta, ci si fa i complimenti a vicenda e poi velocemente ognuno per la propria strada.

[I]Ghiacciaio Hofsjokull[/I]
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[I]Si fanno progressi[/I]
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Dopo ore e ore passate a spingere controvento sui pedali dei rapporti da salita non so bene quanto manca alla meta che mi sono prefissato, il rifugio Nyidalur. Dato il forte vento e il terreno sabbioso/sassoso che rende molto difficile piantare la tenda e la totale assenza di ripari dal vento devo raggiungere un punto civilizzato. Dopo parecchi momenti di sconforto durante la giornata, verso sera penso di essere arrivato a uno stato d’animo zen, in pace con gli elementi, così, dopo aver cenato dietro a un masso, mi metto dei vestiti pesanti addosso e decido di andare avanti anche col buio.

[I]La giornata sta finendo[/I]
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[I]La giornata è finita[/I]
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Avere la bici atrezzata con luci è un grande vantaggio. La temperatura è scesa di molto ma non ho freddo. Quei 2 o 3 fuoristrada che passano di lì si fermano e mi chiedono se ho bisogno di aiuto, se sto bene… Rimangono stupiti nel vedere che è tutto a posto e che non ho bisogno di niente.
Ormai è buio e dopo 12 ore e 70km di bici vedo un cartellone stradale che mi dice che mancano ancora 20 km a Nyidalur. Una botta morale, pensavo di essere quasi arrivato. In quel momento sopraggiunge l’ennesimo pick-up enorme, è un guardiaparco del Parco nazionale del Vatnajokull (è il più esteso ghiacciaio sulla terra dopo i poli), a bordo c’è anche una graziosa fanciulla. Anche loro mi chiedono come sto e se avessi bisogno di aiuto. A quel punto il mio orgoglio di autosufficenza è stato spazzato via dal vento e accetto il passaggio offertomi fino al rifugio.
Caricata la bici e tutti i bagagli sull’enorme cassone mi godo il viaggio in macchina, fuori ci sono 0 gradi. Arrivati al rifugio inizia a nevicare, mi corico nel sacco a pelo e mi addormento praticamente all’istante. (Continua qui)

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